Africa Breve
01
degli antefatti e misfatti
di questa veridica storia
Quand'era bambino, le sedute dal parrucchiere gli
parevano interminabili, forse fu quella la sua prima esperienza
di prigioniero. Allora i capelli dovevano stare sempre cortissimi
e rasati alla nuca sicché, ogni due settimane, la mamma
lo consegnava senza tanti discorsi nelle mani profumatissime
di certi signori dall'accento meridionale. Questi l'issavano
sopra una sedia, enorme e quasi elettrica e, fasciàtolo
a mummia entro lini candidissimi, gli intimavano sempre:
"Statti fermo!"
Oramai dal suo corpo, tutto avvolto nel suo bianco sudario, sopravviveva
soltanto la testa, a patto che stesse ben ferma sotto il secco
crepitìo delle forbici. Né rabbrividisse al carezzevole
ma freddolino rasoio, appena affilato con fare chirurgico da
macellaio su di una correggia di pelle. O addirittura si pietrificasse
sotto la stessa falciatrice ronzante che in seguito verrà
adottata anche per tosare le pecore: i capri espiatori dell'umana
ignudità.
Era come ogni notte quando, dalla finestra, sarebbe entrato un
oscuro nemico deciso ad ucciderlo. Anche allora doveva per la
vita tenere immobilissima la testa, nascondendo tutto il resto
del corpo sotto al lenzuolo. L'Avversario avrebbe creduto che
lì sul cuscino ci stava soltanto una testa di già
decollata. Impossibile uccidere un bimbo morto: se ne andava
scornato, ma non del tutto convinto, perché poi ritornava
tutte le sere.
Era oramai un angioletto davvero, di quelli che si vedono in
chiesa: testolina priva di corpo adagiata su una candida nuvola.
Altro fare oramai non poteva che guardare e ascoltare, mentre
i cherubici riccioli tutti cadevano al suolo.
C'era un modesto viavai in barbieria: certi signori che magari
neppure si depilavano e nondimeno venivano a fare discorsi cifrati,
intorno a misteriose schedine. Ma la sua testolina non riusciva
a seguirli perché, presa tra due fuochi di specchio, sempre
più piccola, si andava incantando nella propria infinita
moltiplicazione.
In guisa di equazione einsteniana, il tempo-spazio andava così
relativo. Si rarefaceva l'aliena atmosfera di brillantine, dilatavano
in celestiali distese le pareti di piastrelle azzurrine con la
loro cornice di mulini olandesi in girotondo, bianchi e azzurri,
bianchi e azzurri, bianchi e azzurri. Il trono o patibolo dove
lui rimaneva inchiodato si era chissà quando trasformato
in magnifica poltrona di astronave.
Quanto il suo corpo prigioniero, erano oramai remotissime le
chiacchiere totocalcistiche: soverchiate dal gorgòglio
sommesso di un bollitore sopra la stufina laggiù, ai suoi
piedi. A quel ritmo canticchiava il motore della potente astronave
neuronica che andava, andava, andava...
"Angelo! Angelo! Angelo!" gli strillava allora il barbiere,
quando per caso infine incrociava lo sguardo del bimbo fisso
nel vuoto.
Angelo è ritornato dal barbiere.
Davanti ai suoi occhi non v'è più un'intera parete
di specchi ma ora osceno sorride il presidente Nixon, in un poster
enorme dai cattivi colori. I muri son ora di lamiera ondulata,
inchiodati su uno scheletro di pali, con tappini di birra per
rondelle, né più serve stufetta: la camera è
ardente.
Il barbiere ha dismesso quella sua compostezza liturgica, senza
la quale ogni sacrificio si riduce a mero scannatoio. Suda e
sbuffa in stato laicale da macellaio, il povero barbaro: non
aveva mai incontato crini difficili come i capelli d'Angelo.
Più che un rito, egli officia un appassionato esperimento
anatomico: non erano mai capitati Bianchi clienti su quell'imbarcadero
del fiume, a Niamey.
Era sempre successo il contrario allo scannatoio infantile: era
allora il suo fratellino che faceva penare il barbiere. Aveva
quel bimbo, capello afro e crespissimo, per chissà quale
ricordo genetico, che invece nell'Angelo era ancora recessivo.
Vale a dire inciso nel corpo e non manifesto, ma di scorta era
lì: per qualche nuova generazione, come magari più
oltre si vedrà.
Qui ora il crespo sarebbe normale ma, per imperiale ordine di
Nixon, i fighetti locali si sottopongono ai più disperati
espedienti pur di pettinarsi anche loro a sua immagine. Con la
riga da una parte ed il ciuffo rigirato, quasi fossero dei convertiti
testimoni di Geova. E qualche volta gli capita anche questo secondo
miracolo.
Dunque il barbiere gli incolla il ciuffetto, o cespuglio, con
una qualche tenacissima gommina. Poi, lungo lo spigolo immaginario
che quadrerebbe le teste rotonde, rasa a zero una striscia antincendio
nella selva crinita. Cioè gli scolpisce ed inventa una
riga altrimenti impossibile. Sicché aggiorna senza parere
quei tatuaggi ancestrali di scarificazioni, che ogni suo tosatello
esibisce, sulle guance, fino dalla prima pubertà. Anzi,
appunto in occasione di essa, perché inizio di pubertà
è sempre fine di libertà: ogni pelo va governato
e i barbieri sono stati inventati anche per questo, e per questo
hanno sempre quell'aria loro sacerdotale.
Nessuno è tenuto a conoscere dove
e che sia Niamey, capitale senza importanza di uno stato inabbiente
e poco sovrano. Nato recentemente e battezzato come il suo stesso
padrino, che talvolta si degnava di bagnarlo. Era questi un fiume
africano con un buffo nome latino perché, dal tempo di
Adamo, nominare è segno di imperio. Al contrario del Tevere
biondo, chiamarono "Moro" quel fiume ovvero, come dicevano,
"Niger": che significa "nero" anzi "negro",
se riferito con spregio agli uomini.
Per volarsene in Niger, anche l'Angelo aveva dovuto pigliare
un aereo. Il passaggio non fu né bello né brutto:
fu il primo affatto della sua vita. Non aveva alcuno ricordo
della prima esperienza di automobile, era stato troppo piccino.
L'astronave del barbiere gli sembrava puranco senza paragone.
Non sembrava neppure un treno: la aerostazione era come priva
di biglietterie, nessuno che volesse vendergli un posto d'aereo.
Snobbando le agenzie cittadine, lui se n'era venuto diretto a
Marsiglia aeroporto, chiedendo del primo aereo per l'Africa.
Ce ne sarebbe pur stato uno bensì quella sera ma avrebbe
dovuto aspettare fino al check in, per sapere se c'era ancor
libero un posto. Il mondo era barbaro: l'informatica allora non
era ancora così sviluppata.
L'attesa spasmodica durò dodici ore, una vera agonia:
lui doveva assolutamente partire per l'Africa quella stessa serata.
S'era deciso ben due giorni prima, dopo un'ultima notte con lei
alla zingaresca locanda del Barrio Gotico, in Barcellona.
Ma perché diavolo l'Africa? Gli
era apparsa anche quella, già da due settimane, presso
un'edicola di Lisbona. Non tabernacolo sacro di barocco portoghese
ma chioschetto di laici giornali, ove il grappolo dei cherubini
decollati era ben sostituito da un profano espositore girevole
di intascabili libri da viaggio. Ancora si traeva, a quell'epoca,
molto spesso ispirazione da libri, massime pocket, sull'esempio
dei maoisti cinesi.
Da quel trespolo di alati volumi, trascelse dunque un "Vudù",
opera di un certo Metrò a lui sconosciuto del tutto, benché
avesse sempre amato ostentare fumose competenze etnologiche.
Scoprì dal risvolto di copertina trattarsi di etnologo
e famosissimo, convinto che l'umanità avesse raggiunto
il suo massimo nell'evo neolitico, mentre il seguito sarebbe
tutta fuffa, come i soliti sequel di film. A parte il progresso
delle cure dentistiche, com'ebbe ad ammettere disseppellendo
arcaiche ed orribili carie. In due o tre continenti fu egli studioso
del magico per esperienza e infine suicida.
Fu quest'ultimo titolo il più prestigioso per Angelo.
Era infatti di quella banda cui tanto bastava per sciropparsi
l'opera omnia di un Cesare Pavese qualsiasi, o del Majakovskij,
se fosse mai fosse stato possibile: che troppe ne scrisse e nemmen
tutte tradotte dal Russo. Nondimeno anche solo il disprezzo per
il progresso, gli sarebbe forse bastato per prendersi quel magico
Metrò.
Divorò il piccolo libro: nella
sua bocca fu dolce come il miele. Gli narrava di stregoni delle
Antille, cui lo stesso Metrò commissionava rituali, ma
non si capiva se ci credesse oppure ci faceva soltanto, per poi
riscriverci sopra.
Comunque fosse, quelli avevano un pànteon di spiriti loro,
importati pari pari dall'Africa e specialmente dal Dahomey. Angelo
s'intrigò nella storia perché quelle loro divine
potenze non entravano dentro la mente dei loro devoti, come sovente
succede. Questa condizione, lui la conosceva di già, fin
dai tempi dell'astronave infantile e la sviluppò poi nell'apprendere
golosamente a leggere e scrivere. L'aveva infine perfezionata
con quell'apprendistato in tutte le droghe, che era all'epoca
indispensabile per ogni giovinetto dabbene.
Questi spiriti d'Africa, invece, pareva entrassero diretti nei
corpi ed eran perciò considerati infernali dal clero cattolico.
Cattolici e battezzati erano anche tutti gli adepti degli spiriti,
compresi gli stessi stregoni, ma questo che fa? gli dèi
sono molti. Sotto la guida di questi sacerdoti diabolici, la
maledetta autocoscienza cosiddetta individuale non stava lì
a travestirsi: veramente scompariva di fronte all'incarnazione
di un dio, che andava allor dispiegando i suoi propri caratteriali
attributi nello stesso vile corpo del credente.
Insomma ogni volta si fan carne tra noi una lussuriosa Venere,
un Marte aggressivo o un ruffiano Mercurio, per dirla in teologia
più familiare. Come un cavallo montavano un loro eletto
devoto, corpo che in quel momento non è più il
vicino di casa o il parente, ma il dio stesso, al quale in persona
ciascuno degli altri fedeli potrà rivolgersi, con proprie
petizioni ed offerte.
Terminata la loro cavalcata terrestre, lasciavano il brocco esanime
a terra e di tutto dimentico. Pieno di grazia comunque e benedetto
tra gli umani per aver accolto in sé stesso un principio
divino: verbum caro insomma, proprio come Mariavergine.
Se giusta religione ci fosse mai stata, pensava l'Angelo, certamente
la formula non avrebbe potuto altra esser che questa: "
+ corpo - mente ". Inoltre, il catalizzatore di questi incarnamenti
o incorporazioni era la musica. Essa trainava alle danze tutti
i fedeli, che finalmente richiamavano in scena il corpo di spiriti,
in coreografica epifania. Sotto la barbieristica tonaca d'Angelo,
o sudario di lenzuolo dove il corpo ogni notte era scomparso,
gli pareva di sentir formicolare. Fu per lui troppo alluzzante
perch'era in questo perfettamente illibato: nel senso che ad
anni ventiquattro non era mai neppure entrato in discoteca.
Infine, sempre secondo quel fantasmagorico libretto, gli sciamani
si curavano di rivestire le incarnazioni con un apposito trovarobato
teatrale: sciabole, mantelli e pennacchi, lustrini, tridenti
e sonagli. Quella traduzione plebea e democratica degli archetipi
celesti, o enti superiori, gli parve una risposta plausibile
all'appello rivoluzionario del Bretòn:
"Il surrealismo alla portata di tutti gli inconsci!"
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http://www.neteditor.it/opere/leggi.php?opera=106
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